« Veramente » di Guido Guidi
Guido Guidi è uno dei maggiori rappresentanti della fotografia italiana contemporanea. Negli anni '60, dopo aver studiato architettura allo IUAV di Venezia, decide di dedicarsi alla fotografia, in cui individua un mezzo immediato e diretto per indagare ciò che si trova ai margini dello sguardo.
L'interesse per la parola e la fotografia come medium porta Guido Guidi ad adottare un linguaggio vernacolare - come lui stesso lo definisce - per documentare le trasformazioni del paesaggio contemporaneo.
Influenzato dal Neorealismo, dalla Scuola italiana di paesaggio e dai Nuovi Topografi, Guido Guidi rivolge il suo obiettivo verso i luoghi periferici e gli spazi interstiziali, in cui le tracce umane, laddove presenti, testimoniano di quotidianità ordinarie e banali.
L'approccio tecnico e i soggetti ritratti formano un insieme che manifesta la volontà del fotografo di estendere lo sguardo oltre i preconcetti e il già visto.
Dopo quarant'anni di carriera e per la prima volta in Francia, Guido Guidi è ospite della Fondazione Henri Cartier-Bresson di Parigi con la mostra Veramente, una raccolta di diversi lavori del fotografo realizzati nel corso degli anni, dalle prime sperimentazioni in bianco e nero alle serie a colori degli anni successivi.
Actuphoto ha incontrato il fotografo italiano che, con passione e coinvolgimento, ha esposto la sua concezione dell'arte, condividendo le sue riflessioni su fotografia e architettura.
La fotografia come linguaggio, cos'ha da dire d'inedito rispetto alle altre forme d'arte?
Walker Evans, alla fine anni '60, diceva che nel fotografare vi è un particolare piacere, per chi lo sa provare, ed è quello di usare un medium disprezzato dai più. La fotografia è un linguaggio vernacolare che permette di dire cose che non si possono più dire altrimenti. È più diretta, ha meno filtri intellettuali rispetto alla pittura. Naturalmente questa è un'illusione. Tuttavia, apparentemente, ma anche sostanzialmente, la fotografia è più diretta alle cose.
Luigi Ghirri diceva che tutto era già stato visto, io spero di poter lavorare ancora sul non visto, e la fotografia mi permette di indagare un territorio ancora non esplorato.
Puente la Reina, Espagne, 1995 © Guido Guidi
Perché ha scelto di documentare il territorio e, in particolare, i luoghi marginali caratterizzati da una presenza spontanea dell'uomo?
« Territorio » è una parola ambigua, come « paesaggio ». Prima era ambiguo « paesaggio », adesso è diventato insopportabile e consumato anche « territorio». Il mio territorio è piuttosto una geografia, una geografia di viaggi personali. Non è il territorio degli urbanisti, e nemmeno quello dei politici; è il territorio di uno che cammina attraverso.
Quale ruolo hanno lo spazio e la luce nell'osservazione di questi luoghi?
Georges Perec ha detto che « lo spazio è un dubbio », e la luce anche. Oppure la luce è una certezza. La fotografia si fa con la luce, ma al buio, dentro una camera che è oscura. In alcune mie fotografie mostro il buio. Hubert Damisch dice che la prospettiva è diversa dalla fotografia, perché la prospettiva si fa alla luce, mentre la fotografia si fa al buio.
Veramente di Guido Guidi alla Fondazione Henri Cartier-Bresson © Anna Biazzi
Veramente di Guido Guidi alla Fondazione Henri Cartier-Bresson © Anna Biazzi
Questo è il punto forte della fotografia, quello di poter realizzare l'opera al buio totale, di poter vedere al buio, quasi in una modalità di non consapevolezza, quasi chiudendo gli occhi. Didi-Huberman dice, paradossalmente, che per guardare davvero un quadro dovremmo poterlo guardare da addormentati... La fotografia è una sorta di sonno-sogno oggettivo.
Il linguaggio rigoroso e privo di elementi esornativi che lei utilizza sembra rivelare un rispetto profondo per la realtà. Un rispetto quasi rivoluzionario nell'era dei ritocchi infinitesimali. Qual è il significato di tale scelta formale e come si traduce sul piano tecnico?
Dico spesso ai miei studenti che la fotografia si fa con l'accetta. L'accetta sembra una mancanza di rispetto verso le cose. Invece no, perché quando tocca il legno, questo si spacca secondo le venature, diversamente dalla sega che trincia. Con l'accetta il legno si rompe, ma seguendo la sua naturale conformazione.
Fosso Ghiaia, Italie, 1971 © Guido Guidi
Perché fotografare l'architettura?
Volevo fare l'architetto. Mi interessa l'architettura vernacolare e mi interessa fotografare quello che non appartiene alla categoria del bello, ai canoni convenzionali dell'estetica.
Perché ha deciso di passare dal bianco e nero al colore?
Il famoso pittore Hokusai diceva che ogni sette anni bisogna cambiare pelle, bisogna cambiare modo di disegnare. Allora prima volevo fare il pittore, poi l'architetto, poi il fotografo e poi il fotografo che usa il colore.
Veramente di Guido Guidi alla Fondazione Henri-Cartier Bresson © Anna Biazzi
Veramente di Guido Guidi alla Fondazione Henri Cartier-Bresson © Anna Biazzi
L'architetto Carlo Scarpa, la Scuola italiana del paesaggio e i Nuovi Topografi sono stati determinanti per il suo lavoro. Vi è oggi un'eredità culturale di tali percorsi artistici?
I miei maestri mi accompagnano nel mio lavoro, quindi non sono perduti. Un altro maestro importante è stato Mies van der Rohe che diceva che « l'architettura non è un Martini Cocktail ». Oggi gran parte dell'architettura, della fotografia e perfino della pittura è un Martini Cocktail, un “ mescolotto”. È vero che i linguaggi tendono a mescolarsi, però è vero anche che il vino buono si fa decantare e il fondo rimane in basso. La fotografia, come il vino, deve essere alleggerita del superfluo.
Amo molto l'Oriente e ricordo che Paolo Fabri, ex direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, raccontava che Roland Barthes, di ritorno da un viaggio in Cina, alla domanda dei giornalisti « Cosa ne pensa della Cina? », rispose: « Insapore ».
Intervista realizzata da Anna Biazzi